Il Lavoro che educa i giovani
Il lavoro che educa i giovani lo fa in questo caso attraverso una competizione. Non è solo questo. I ragazzi fanno un cappuccino, il miglior cappuccino, con la dedizione e l’attenzione che una gara richiede. Eppure quel cappuccino non dura un giorno. Dietro a quel cappuccino c’è una scuola, che forma i nostri ragazzi, che li educa, che li accompagna nel mondo del lavoro. Dietro quel cappuccino ci sono professori attenti, a passare contenuti che gli allievi possano portarsi dietro per la vita. Ci sono insegnanti che si preoccupano e che si prendono in carico gli allievi, ci sono tante ore di scuola, di teoria, ore di pratica, di laboratorio. C’è la storia del caffè, c’è la storia del cappuccino ma ci sono soprattutto il senso del dovere, una predisposizione, un’applicazione e un allenamento alla fatica. C’è un’opportunità di riscatto, da una vita che magari non è stata generosa. Ci sono ansie e preoccupazioni e c’è un lavoro di cura.
Il lavoro che educa non significa che ragazzi così giovani debbano per forza conoscere il mondo del lavoro, con le sue leggi, talvolta spietate o ingiuste, talvolta troppo rigide. Ma significa quello che potremmo intravedere nell’etimologia stretta del termine educare. Dal verbo latinoeducĕre.E-ducĕre significa letteralmente tirar fuori, compito nostro è quello di tirare fuori le potenzialità di questi ragazzi e poi di condurli e aiutarli a crescere fortificandoli. Compito nostro è quello di fornire loro maggiori strumenti possibili perché siano in grado di affrontare il mondo, quello che c’è là fuori, quello che non li aspetta.
Il lavoro di cura è quello che si fa con la formazione professionale, perché siamo insegnanti, educatori, formatori, che si relazionano con persone, non con macchine. Che si prendono cura e si pre-occupano del loro presente e del loro futuro. Secondo la favola del poeta Igino, la “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “cura” pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo impedì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre Giove e la “Cura” disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: ‘Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, al momento della morte riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso viva lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)’ ”.
Ed è la cura dunque che dovrebbe contraddistinguere l’uomo.
Ed è la cura dunque che contraddistingue la nostra missione educativa, come operatori, professionisti riflessivi.
Attraverso un lavoro di cura e di dedizione i giovani crescono. Piccoli artigiani, come vuole il contesto in cui studiano. Un contesto che vede protagonista nel lontano 1866 un giuseppino di nome Leonardo Murialdo, intento ad offrire proprio ai piccoli artigiani l’apprendimento di un mestiere per poter migliorare il loro futuro. Al Collegio degli Artigianelli si proponeva di accogliere, assistere, educare cristianamente e formare al lavoro i ragazzi poveri ed abbandonati. Sono trascorsi 150 anni di storia, più di 150 anni di vita e ancora adesso ci si propone di accogliere, assistere, educare, formare al lavoro i ragazzi, anche attraverso esperienze come queste.
Gretel Cecchin